Il futuro è nelle O.D.R. (Online Dispute Resolution), nei sistemi di definizione e composizione stragiudiziale delle controversie, che mirano a diffondere la cultura del dialogo e del confronto come regola operativa, anche in contesti telematici (es. videoconferenze) e con riferimento ad argomenti più o meno legati al mondo di internet e dell’e-commerce.
Recentemente vi è stata una Proposta di un Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla risoluzione delle controversie online dei consumatori (cd. regolamento sull’ODR per i consumatori). Una proposta che, insieme alla proposta di direttiva sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori (cd. direttiva sull’ADR per i consumatori), mira a dare rilievo ai mezzi di ricorso dei consumatori per le operazioni transfrontaliere di commercio elettronico.
L’ambito di applicazione viene individuato sin dai considerando iniziali, nei quali si parla dell’opportunità di applicare il Regolamento alla soluzione stragiudiziale di dispute contrattuali tra consumatori e professionisti, che sorgono dalla vendita di beni o dalla fornitura di servizi online a livello transfrontaliero. Si aggiunge, poi, che non deve essere applicato alle controversie tra consumatori e professionisti relative alla vendita di beni o alla fornitura di servizi online, se almeno uno di essi non è stabilito o non è residente in uno Stato membro dell’Unione al momento dell’ordine dei beni o dei servizi, ovvero se il professionista e il consumatore sono entrambi stabiliti o residenti nello stesso Stato membro.
Diversi sono i meriti della Proposta in esame. Innanzitutto si presta attenzione alla necessità di garantire un’offerta completa e organica dei sistemi di ADR per la risoluzione delle controversie dei consumatori legate all’e-commerce . Inoltre, si perseguono gli obiettivi della celerità e delle economicità che sono alla base di ogni sistema di ADR, garantendo ai consumatori la possibilità non solo di presentare il reclamo online, ma anche di condurre l’intero procedimento in ambiente telemativo.
Si crea un intreccio imprescindibile tra fiducia nell’e-commerce, specie con riferimento alle operazioni trasfrontaliere, e presenza di un efficace sistema di ricorso per i reclami connessi a tali operazioni. Scindere tale legame significa causare effetti negativi sia sui consumatori, sia sui professionisti e sulle imprese. I consumatori perchè gli stessi perdono o limitano drasticamente la possibilità di fare acquisti oltre frontiera, scegliere prodotti che posssano soddisfarli anche a un prezzo più vantaggioso; i professionisti e le imprese, specie quelle piccole e medie, sono dissuase, come si ricorda nella parte introduttiva della Proposta di Regolamento, dall’acquisire capacità amministrativa necessaria per trattale le dispute con i consumatori che risiedono in un altro Stato membro, e tutto ciò impedisce lo sviluppo del mercato interno globale.
Tra i numerosi studi effettuati sul campo, è emersa chiaramente la necessità di sostenere e migliorare gli strumenti ODR, in particolare per le operazioni di e-commerce, settore in cui il numero di reclami, specie di basso valore, è crescente. Per strutturare un sistema operativo efficiente di gestione dei reclami è necessario altresì fornire informazioni adeguate e complete sulla procedura da affrontare e sui possibili esiti della stessa. La conoscenza è di per sè veicolo per diffondere con credibilità e facilità strumenti che son utili e vantaggiosi, sotto tanti punti di vista.
Tra i punti da segnalare della Proposta, è importante ricordare l’istituzione di una piattaforma europea di risoluzione delle controversie online (piattaforma ODR), che si presenta come un sito web interattivo che offre un unico punto di accesso per i consumatori e per le imprese che desiderano risolvere stragiudizialmente le controversie relative a operazioni transfrontaliere di e-commerce. Un sito-piattaforma accessibile in tutte le lingue ufficiali dell’UE, con la possibilità per i consumatori e professionisti di presentare reclami attraverso appositi moduli scaricabili dal sito stesso e di trasmettere i reclami all’Organismo di risoluzione alternativa delle controversie competente (ADR).
Un sistema ODR, come ricordato nei considerando iniziali, a livello europeo deve basarsi sugli organismi ADR esistenti negli Stati membri e rispettare le tradizioni legali di questi ultimi; infatti, gli organismi che ricevono un reclamo trasmesso mediante la piattaforma ODR devono applicare, si ricorda nel testo dei considerando, le proprie norme procedurali, incluse le regole riguardanti i costi. Il Regolamento intende, però, istituire alcune regole comuni da applicare a tali procedure per salvaguardarne l’efficacia, e con riferimento a ciò preme ricordare che le caratteristiche dei tradizionali sistemi di ADR sono salvaguardate e anzi rimarcate, e si presta attenzione alla partecipazione, economicità, riservatezza e celerità nel processo di gestione del reclamo.
Per una lettura più approfondita della Proposta, è senz’altro utile e opportuno consultare il testo relativo alla Proposta di un Regolamento.
“È vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei” (Jean-Paul Sartre)
Parlare di deontologia, in generale e con particolare riferimento alla mediazione, è quanto mai attuale e significativo, per tanti risvolti applicativi e operativi, tutti legati alle figure professionali che a vario titolo sono tenute a osservare determinati principi e presenziare con correttezza e senso di responsabilità al tavolo della mediazione. Figure che identificano ruoli, poteri, azioni, comportamenti, rilevanti nel processo comunicativo e negoziale.
Deontologia come complesso di norme comportamentali che disciplinano l’esercizio di una professione, come abito che i professionisti devono indossare prima, durante e dopo l’incontro della mediazione. Deontologia per l’avvocato che accoglie le istanze di giustizia del proprio cliente; deontologia dell’assistente-avvocato che supporta le argomentazioni, le ragioni, gli interessi, le necessità dell’assistito in chiave negoziale durante lo svolgimento della mediazione; deontologia del mediatore-avvocato, tenuto ad osservare i principi e le regole di buona condotta, preparazione, correttezza, propri dei Codici deontologici dell’organismo presso cui è accreditato e del Codice deontologico forense, come recentemente modificato.
Potremmo parlare, dunque, di una deontologia 3D, sulla falsariga della tecnologia 3D per la visione di film mediante l’utilizzo di speciali occhiali, in grado di dare qualità e senso di realtà (toccata quasi con mano) o di futuribilità alle immagini proiettate su uno schermo o in un cinema.
Una deontologia che interessa il triplice ruolo dell’avvocato, chiamato ad espletare il proprio incarico con profonda serietà e tutela degli effettivi bisogni del cliente. Triplice è il ruolo, triplice è il momento in cui occorre dare contenuto pratico ai doveri deontologici.
Senza scendere nel dettaglio e senza citare tutti gli articoli che riguardano tali doveri, sotto il profilo operativo è quanto mai essenziale prestare attenzione all’osservanza degli stessi «prima», «durante» e «dopo» il procedimento di mediazione.
Il «prima»: il rapporto con il cliente e la relativa informativa sulla mediazione. Un momento di grande rilevanza, troppo spesso ridimensionato a mero adempimento formale (sulla falsariga dell’informativa privacy, di cui al D.lgs. 196/2003), a partire dal quale si decide se indossare o meno seriamente gli occhiali della deontologia e cambiare (e far cambiare) prospettiva, puntando ad una visione di insieme, e non solo ad un più immediato, e per certi versi semplicistico, approccio litigioso. La scelta del legislatore è stata quella di prevedere per la sola categoria professionale dell’avvocato, un preciso obbligo di informare, all’atto del conferimento dell’incarico, il proprio assistito della possibilità di esperire il tentativo di mediazione finalizzata alla conciliazione, con tutte le agevolazioni di cui agli artt. 17 e 20 D.lgs. 28/2010, nonché della necessità di farlo, in specifiche ipotesi contemplate all’art. 5 dello stesso decreto, perché condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Occorre notare come le parole del legislatore siano chiare, se guardiamo al testo, ma presuppongono un atteggiamento, una lettura, una applicazione di tali parole e delle relative regole, che non può essere soltanto imposta, ma veicolata all’interno degli stessi ambienti dell’avvocatura cui i professionisti appartengono. Dare senso pratico all’informativa scritta, chiara, ispirata alla trasparenza, significa educare l’avvocato in primis ad una deontologia che non sia più mera forma, ma sostanza, che punti alla qualità dei comportamenti, che si fondi su azioni di professionisti aperti al confronto e al cambiamento, nient’affatto abituati a un concetto unidirezionale (e anacronistico) di giustizia o schierati per la difesa di interessi di casta o propri; professionisti favorevoli a una modernizzazione del sistema giustizia fondato su una scelta consapevole, da parte dell’assistito, dello strumento adatto a gestire e risolvere i propri problemi, le proprie criticità e conflittualità, aprendo la porta (multi-door) che più e meglio consente di partecipare, di esserci, di far valere la propria voce.
Il «durante». Pronti, partenza e via. La mediazione entra nel vivo, l’incontro iniziale tra mediatore, parti ed eventuali assistenti, serve a dare ulteriore contezza di come gli occhiali indossati nella fase prodromica alla mediazione, siano assolutamente indispensabili durante il percorso che le parti e l’assistente intraprenderanno e nella fase decisionale. L’avvocato-assistente è davvero una figura centrale, seconda sola alla parte stessa, nell’intero procedimento di mediazione, in quanto sotto il profilo negoziale la sua presenza è in grado di aggiungere elementi di interesse o disturbo, di ricchezza o ostacolo, comunque da gestire e preventivare da parte del mediatore, senza condizionamenti.
I concetti più richiamati e utilizzati nel Codice deontologico forense, ma anche negli altri Codici deontologici delle altre categorie professionali, sono quelli di lealtà e correttezza. Basterebbe solo il richiamo a questi concetti per comprendere quanto sia necessario per il professionista indossare quegli occhiali e farli indossare al proprio cliente. Un richiamo che deve trasformarsi in comportamenti concreti, in cambiamenti di prospettiva, e non restare previsione di intenti, e dunque, con ogni probabilità, lettera morta. La visione di una categoria professionale non attenta a tali basilari regole è alquanto miope e destinata a fallire, specie se rapportata a contesti sovranazionali, in cui la ricerca di qualità e responsabilità è il motto da seguire.
La deontologia, calata nel pieno svolgimento della mediazione, è attenzione costante alle regole della corretta interazione con le parti, con l’assistente dell’altra parte, ma in un senso più propriamente costruttivo deve essere atteggiamento di profondo rispetto e dunque osservazione attenta e attuale di tutti i reali bisogni che il proprio assistito ha, dei suoi dubbi, delle sue perplessità, aspettative, priorità, necessità, che possono variare, e variano, anche più volte all’interno di una mediazione. Un atteggiamento di ascolto e sostegno attuale, finalizzato a creare e selezionare insieme, ove richiesto, le scelte negoziali da intraprendere, a spiegare i possibili contenuti, significati, implicazioni, anche giuridiche, che le stesse possono avere. In altri termini, un sostegno per una negoziazione responsabile.
Le responsabilità hanno senz’altro una funzione educativa, e dunque gli assistenti e gli assistiti (le parti) possono e devono maturare esperienza per educarsi i primi alla regola deontologica principe, quella del rispetto, e i secondi alla regola operativa principale in mediazione, quella della partecipazione attiva e della cooperazione.
Il «dopo». Il dopo, in mediazione, è strettamente collegato alla cultura delle mediazione ed assume diversi significati. Per quanto concerne l’avvocato, le previsioni del Codice deontologico in relazione alla fase successiva all’espletamento delle funzioni di mediatore e ai rapporti con una delle parti della mediazione appena gestita, sono piuttosto nette (si veda l’art. 55-bis). Deontologia in questo caso, però, non dovrebbe essere intesa soltanto come obbligo di non violare il Codice deontologico che prevede delle incompatibilità specifiche, bensì come insegnamento che dall’esperienza di mediazione gestita in qualità di assistente di parte si può e si deve uscire migliorati, aperti al dialogo e al confronto ogni qualvolta sia opportuno e necessario procedere in tal senso. La deontologia esige che venga maturata una piena consapevolezza dei doveri del Codice, che parla di lealtà e correttezza appunto, di fedeltà professionale, di dignità e decoro, di indipendenza (cfr. art. 10, a mente del quale ‘l’avvocato non deve tener conto di interessi riguardanti la propria sfera personale’), affinchè abbia un senso compiuto la previsione contenuta nel preambolo, che così recita: ‘L’avvocato esercita la propria attività in piena libertà, autonomia ed indipendenza, per tutelare i diritti e gli interessi della persona’.
La possibile mancata conoscenza dell’avvocato e del proprio assistito di tutti gli strumenti effettivamente utilizzabili in presenza di un conflitto, con una attenta informativa su vantaggi e svantaggi, possibili agevolazioni fiscali e costi effettivi di ognuno di essi, impedisce di avere un quadro chiaro su come muoversi, è causa di timori infondati, di frammentarietà, di valutazioni spesso affrettate e non veritiere. Ove ciò accada, a risentirne è la professionalità dell’avvocato e la sua correttezza, ma anche la giusta ricerca di giustizia dell’utente che ha il problema, il quale sempre più spesso vuole un abito tailor made, da scegliere e cucire secondo le proprie esigenze, i propri bisogni e le proprie priorità.
Si tratta essenzialmente di una questione di linguaggio e ad essere chiamati in gioco c’è la norma giuridica, da un lato, e l’autodeterminazione consapevole, dall’altro, che devono confrontarsi e combinarsi in un meccanismo tale che consenta ai diretti interessati, che vivono il conflitto, di scegliere come affrontarlo, gestirlo e risolverlo nei migliore dei modi.
Stefano Rodotà, insigne giurista, sul punto ha così riflettuto: “Proprio perché la premessa delle scelte individuali e collettive affonda in valori che possono profondamente divergere, e la decisione spesso è affare di coscienza, lo strumento del diritto non sempre è quello più adatto a risolvere i problemi che, anzi, possono essere resi più acuti dalla imposizione legislativa di una sola delle posizioni in campo”.
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Qui di seguito l’elenco di decreti, circolari e provvedimenti adottati al ministero della Giustizia in tema di Mediazione finalizzata alla conciliazione.
Per visionare il contenuto di ogni documento cliccare sui testi di seguito evidenziati.
Decreti
Decreto 6 luglio 2011, n. 145 – Regolamento recante modifica al d.m 18 ottobre 2010, n. 180, sulla determinazione dei criteri e modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonchè sull’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’art. 16 del d. lgs. 28/2010
Decreto 18 ottobre 2010 n. 180 – Registro degli organismi di mediazione e elenco dei formatori per la mediazione
Circolari
Circolare 20 dicembre 2011 – Interpretazione misure correttive decreto interministeriale 145/2011
Circolare 13 giugno 2011 – Attività di tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco degli enti di formazione. Indicazioni sull’applicabilità della disciplina del silenzio assenso
Circolare 4 aprile 2011 – Regolamento di procedura e requisiti dei mediatori. Chiarimenti
Provvedimenti e Note
Nota 2 febbraio 2011– Organismi di mediazione ed enti di formazione: nota illustrativa per la compilazione dei modelli di domanda
Provvedimento 4 novembre 2010 – Modelli di domanda per l’iscrizione al registro degli organismi di mediazione e all’elenco degli enti formatori per la mediazione
Il Tribunale di TERMINI IMERESE, Sezione civile, è recentemente intervenuto con una ordinanza del 9 maggio 2012 con la quale si è soffermato su specifici profili legati alla mediazione finalizzata alla conciliazione, con particolare riferimento all’ipotesi, disciplinata dall’art. 8, comma 5, decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, della mancata partecipazione al procedimento senza un giustificato motivo. La norma citata, così modificata dall’art. 2, comma 35-sexies, D.L. 13 agosto 2011, n. 138, prevede che: “Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio“.
Nello specifico, il giudice ha individuato espressamente la ratio della disposizione di cui innanzi, evidenziando come le motivazioni addotte dalla parte chiamata in mediazione, riassumibili nella “acclarata ed atavica litigiosità” tra le parti e che portavano a ritenere inutile l’esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, non fossero valide, in considerazione del fatto che “la sussistenza di una situazione di litigiosità tra le parti non può di per se sola giustificare il rifiuto di partecipare al procedimento di mediazione, giacché tale procedimento è precipuamente volto ad attenuare la litigiosità, tentando una composizione della lite basata su categorie concettuali del tutto differenti rispetto a quelle invocate in giudizio e che prescindono dalla attribuzione di torti e di ragioni, mirando al perseguimento di un armonico contemperamento dei contrapposti interessi delle parti“.
Un giudice che, quindi, ritiene obbligatoria la pronuncia di condanna, in virtù della disposizione richiamata, della parte assente senza giustificato motivo, e che rileva come l’irrogazione della sanzione pecuniaria prescinda del tutto dall’esito del giudizio e non possa ritenersi necessariamente subordinata alla decisione del merito della controversia, ma possa, anzi, essere irrogata in un momento antecedente.
Una pronuncia che nella sua semplicità individua una strada corretta, che va nella scia di salvaguardare lo strumento della mediazione sotto il profilo applicativo, anche nell’ottica di dare concretezza alle sanzioni previste dal legislatore.
Il Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha approvato, lo scorso 15 giugno 2012, un pacchetto contenente un ventaglio di misure urgenti e strutturali che realizzano una parte ulteriore dell’Agenda per la Crescita sostenibile. Tra le novità del provvedimento (decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, in G.U. n. 147 del 26-6-2012 – Suppl. Ordinario n.129), ricordiamo quelle sulla riduzione dei tempi della giustizia civile, destinate a inserire elementi di estrema importanza nel comparto giustizia e in quello della mediazione finalizzata alla conciliazione.
Sotto la dicitura ‘Misure urgenti per la crescita del Paese‘, il DL 83/2012 segna, nella parte relativa alle ‘Ulteriori misure per la Giustizia civile’, artt. 54-55, un pasaggio significativo, da seguire e approfondire, verso un sistema giustizia che sia più efficiente e degno di un Paese effettivamente competitivo. Da più parti è stata avvertita, non senza resistenze e timori di casta, l’esigenza di riscrivere i pilastri su cui fondare l’idea di una giustizia ispirata alla celerità, alla economicità e alla funzionalità, visti i numeri, purtroppo sempre di segno negativo, che accompagnano la tradizionale e ormai antistorica visione della giustizia come affare da gestire all’interno delle aule dei tribunali.
Qui di seguito alcuni punti su cui si fonda il decreto in oggetto, riportati in pillole.
L’Art. 54,comma 1, lett. a), DL 83/2012, sotto la rubrica ‘Inammissibilità all’appello‘ prevede che «Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta».
Il successivo art. 55, rubricato ‘Modifiche alla legge 24 marzo 2001 n. 89‘, interviene nel precisare alcuni concetti e dinamiche legate al riconoscimento degli indennizzi per la irragionevole durata del processo (equa riparazione – legge Pinto), che in alcuni casi viene escluso. Prima di analizzare l’ipotesi di esclusione, è bene soffermarsi sul nuovo testo dell’art. 2, comma 2, l. 89/2011, a mente del quale «Nell’accertare la violazione il giudice valuta la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione».
A tale disposizione, seguono i commi 2-bis, 2-ter, 2-quater e 2-quinquies, che qui di seguito sono riportati:
«2-bis. Si considera rispettato il termine ragionevole di cui al comma 1 se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Ai fini del computo della durata il processo si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio ovvero con la notificazione dell’atto di citazione. Si considera rispettato il termine ragionevole se il procedimento di esecuzione forzata si è concluso in tre anni, e se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni. Il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari.
2-ter. Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.
2-quater. Ai fini del computo non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso e di quello intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l’impugnazione e la proposizione della stessa.
2-quinquies. Non è riconosciuto alcun indennizzo:
a) in favore della parte soccombente condannata a norma dell’articolo 96 del codice di procedura civile;
b) nel caso di cui all’articolo 91, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile;
c) nel caso di cui all’articolo 13, primo comma, primo periodo, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28;
d) nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte;
e) quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini cui all’articolo 2-bis.
f) in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento».
Tra i casi di esclusione del riconoscimento dell’indennizzo di cui sopra, pur in presenza di un processo durato per un tempo irragionevole, si ricorda dunque la previsione di cui all’art. 13, comma 1, primo periodo, del d.lgs. 28/2010, a mente del quale “quando il provvedimento che definisce il giudizio (instaurato successivamente al fallimento della mediazione) corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto“.
Pertanto, la parte che rifiuta una proposta di accordo in sede di mediazione, e la sentenza emessa nel giudizio che alla mediazione ha fatto seguito è dello stesso tenore della proposta, non avrà diritto all’indennizzo anche se il processo è durato oltre una soglia ragionevole.
Occorre, sembra voler dire il decreto legge, una nuova coscienza del conflitto e una nuova cultura nella gestione delle relazioni, anche in presenza di criticità e problematicità (sono fatte salve, è doveroso ricordarlo, tutte quelle fattispecie in cui la presenza del giudizio è giustificata da specifiche esigenze di celerità e garanzia, come quelle indicate dall’art. 5, commi 3 e 4, d.lgs. 28/2010).
Non essendovi altra formula, l’indennizzo, spetta, invece, nell’ipotesi in cui il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde interamente al contenuto della proposta (ai sensi dell’art. 13, comma 2, d.lgs. 28/2010), nel qual caso il giudice, in presenza di gravi ed eccezionali ragioni, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore e per le altre spese affrontate durante la mediazione.