Moderni o non moderni, falso dilemma da eterni Peter Pan.
Quanto sta accadendo, mi riferisco al vociare incessante sulle pseudo novità inerenti la mediazione quale strumento di vita e di definizione e risoluzione di una lite, merita una profonda e netta riflessione. Quantomeno in chi si interroga sul destino di un Paese in rotta di collisione con se stesso.
Ormai, sempre più diffusamente, si assiste alla malsana abitudine di proporre dibattiti che appaiono strutturati più come dilemmi esistenziali di pensatori che come strumenti di risposta per le esigenze e le necessità della collettività.
A tali dilemmi, di dubbio interesse e utilità, si mescolano, da un lato, urla, scoramento, tensioni, iperemotività, ansie, lacrime, per ogni notizia, virgola, accento che proviene dalle aule che contano – si suol dire -, dall’altro, festeggiamenti, ghigni, segni di vittoria e delirio di onnipotenza, sintomatici entrambi di una instabilità dilagante, di assenza di maturità, di un approccio tutt’altro che rappresentativo di un sistema giustizia che funzioni e aspiri a essere motivo di vanto e orgoglio per la storia di un Paese intero.
Storia che si fonda su piccoli istanti di vita vissuta. Come quella di chi ha avuto la fortuna di assaporare luci e ombre della giustizia, nel proprio piccolo, circondati da una cultura dell’esempio inculcata da lavoratori instancabili e grandi maestri impegnati a riscrivere e definire la storia di litigi talmente farraginosi, sconclusionati e inutili da risultare irreali, oltre ogni immaginazione.
Una vita di insegnamenti fondati su una profonda umiltà, un senso del lavoro e del rispetto molto alto, una etica fatta di fatti e non parole.
Concetti che, nemmeno con la migliore creatività, si riescono a vedere all’orizzonte di questa ‘stagione’ della giustizia.
È forse davvero il tempo di fare un passo indietro, tutti, di allontanarsi dai luoghi del delirio collettivo, quali sono i centri del potere (così allettanti, ma così deleteri per la coscienza individuale e sociale) e i piedistalli, di riprendere fiato e capire fino in fondo cosa significhi per la propria vita e per il proprio Paese ‘agire per la giustizia, nella giustizia e con la giustizia’.
È davvero il tempo delle risposte, delle scelte e delle decisioni. Non tanto e non solo nelle aule parlamentari, impegnate, da sempre, a fronteggiare pressioni, cercare compromessi, proporre e mitigare entusiasmi, fare due passi avanti e tre indietro, fare proclami per poi smentirli, cercare di far comprendere, senza comprendere. Il tutto muovendosi spesso tra buio e ignoranza di chi non ha il cuore e la mente idonei a consentire una valutazione ponderata, adeguata, consapevole delle questioni realmente in gioco.
Non è in gioco la scelta su quale dilemma proporre in un talk show di cultori, dottrinari, esimi ed egregi, nè chi sia titolato per rappresentare un’idea, nè quale pedina si debba muovere per occupare una posizione strategica sullo scacchiere in un quadro di falsi equilibri, nè tantomeno quale sia la tattica migliore da seguire tra concedere e resistere, riconoscere e trattenere.
È in gioco la dignità di un Paese, del suo passato, del suo presente e del suo futuro. È in gioco la dignità di coloro che fanno parte, a vario titolo, della storia di questo Paese. È in gioco la dignità di tutti.
Lontani da ogni retorica e ricerca di consensi.
Lontani da ogni facile sarcasmo e accanimento ad oltranza.
Parlare di una semplice scelta per la modernità della giustizia, contro l’immobilismo e l’arretratezza, equivale a vedere solo una parte di un fenomeno più complesso, articolato e assorbente.
L’esigenza di una riflessione scaturisce, o meglio dovrebbe scaturire, da una intensa emozione che avvolge l’animo e spinge la parte più pura e vera dello stesso a intervenire con una voce consapevole, un segno concreto di presenza.
Una ‘voce’ che possa fondarsi su sangue caldo nelle arterie, cuore pulsante, passione e slancio, lotta indomita, umiltà e sacrificio, un fare e un agire senza luci della ribalta, spesso nel silenzio e nella riflessione, prima ancora che nelle parole. Una voce che testimoni amore e innamoramento.
Troppo spesso si percepisce invece caos, corse per primeggiare, manie di protagonismo, capricci, ripicche, e tanto altro.
Ecco uno spazio della coscienza da recuperare.
Uno spazio in cui non si può intervenire con manovre, contromanovre, contentini, ricatti. Uno spazio che è personale, unico, prezioso, e chiede al di la di tutto e tutti un po’ di chiarezza e autenticità, verso se stessi e verso gli altri.
Ecco uno spazio che nessuna politica potrà mai contaminare, nessuna legge potrà mai scalfire, e nessuna azione potrà mai condizionare.
Uno spazio che si fonda sulla forte convinzione che fare giustizia, in qualunque forma e modo, è prima di tutto un atto di responsabilità e un’opportunità di crescita personale e collettiva; è educazione, è comportarsi con amore ed entusiasmo se si crede in un’idea, contro i ‘se’ e contro i ‘ma’, è percorrere la vita tra inciampi e ripartenze tumultuose, è dare tutto senza risparmiarsi, proponendo il proprio esempio senza aspettare l’altrui esempio.
Siamo un Paese che ha bisogno di uscire dalla sindrome di Peter Pan e assumersi responsabilità, senza più ritardi, senza più attese.
Nella storia di ogni Paese si segnano momenti di stallo e di virtuosismo nell’incedere e segnare il proprio passo.
Un passo che può avere il peso delle catene dell’inferno, può risentire del lezzo della politica che si sa essere sporca e declamatoria, ovvero può essere condizionato nell’entusiasmo da atteggiamenti protezionistici e di chiusura.
Un passo necessario, però, che compone un percorso fatto di continue storture e momenti di luce, di continui inizi e pause.
Il primo inizio è davvero a portata di mano.
Lo è anche il futuro delle coscienze, il futuro della mediazione, come quello della giustizia.
Un futuro che deve abbandonare la mera speranza, teorica il più delle volte, che altri possano maturare all’improvviso una nuova e solida consapevolezza nella gestione e trasformazione delle relazioni e dei conflitti; consapevolezza che potrebbe tardare a giungere.
Le scene di delirio quotidiano nelle aule dei tribunali, luoghi da sempre deputati – in teoria – alla difesa dei diritti, degne della migliore rappresentazione teatrale dell’inverosimile (chi scrive è avvocato, oltre che innamorato della mediazione), sono eloquenti e non hanno bisogno di commenti ulteriori, si commentano da sè.
Come l’improvvisazione che spesso si percepisce nei ‘fulminati’ sulla via di Damasco, i quali scoprono la mediazione, ne decantano le virtù, per poi perdersi in chiacchiericci e scontri armati degni delle migliori truppe di assalto.
Controsensi che dovrebbero far riflettere, davvero.
Un futuro può esistere ove ognuno decida di muovere i propri passi, recuperare e rinvigorire la consapevolezza di chi decide di salpare, anche se c’è burrasca, anche se il vento non è amico, anche se l’orizzonte non appare roseo. Salpare un po’ come vivere tra responsabilità e impegno, riappropriandosi della propria libertà di essere pensante e protagonista di un cambiamento.