Countdown e tempesta di mail
Il countdown, prima, e la tempesta di mail, dopo. Facile prevederlo. Il polverone è stato sollevato, da tempo.
«Prima solleviamo la polvere e poi diciamo di non poter vedere»,
ricordava George Berkeley.
La tanto nota ‘scadenza’ del 25 maggio è giunta, ignorata o attesa, da tempo. Dalla ricerca della ‘privacy perduta’ alla ricerca della data protection compliance mal voluta, verrebbe da dire. Un po’ ovunque, ricerche di escamotage che semplifichino la complessità, identifichino, in un battito di ciglia, cosa fare e come farlo velocemente, salvando capra e cavoli, scongiurando ogni pericolo di possibile sanzione futura. Lo sviluppo della civiltà e l’affermazione di specifici valori, diritti e libertà dovrebbero essere i veri binari su cui deve scorrere la storia. Di tutti. La privacy, così come i dati personali, rilevano, lo sapevamo allora, lo sappiamo ancor più oggi. Essi rappresentano un patrimonio preziosissimo, attuale e potenziale per enti, aziende, professionisti, dovrebbero esserlo per ognuno di noi, eppure quando si parla di privacy e data protection ancora oggi si assistono a improvvisate ed estenuanti corse contro il tempo. Perché? Alcune riflessioni di tipo sostanziale, ma anche formale.
Consapevolezza e privacy
Diceva Henry David Thoreau:
«Non conosco un fatto più incoraggiante dell’indiscutibile capacità dell’uomo di elevare la sua vita attraverso uno sforzo consapevole».
La consapevolezza è uno spazio che apre la mente e genera nuovi modi di percepire, di pensare, di agire. Generare consapevolezza è necessario, ora come mai finora, per riconoscere l’importanza e la rilevanza del diritto alla protezione dei dati personali, nella cultura, nella quotidianità, nel lavoro e nella vita di relazione, personale, commerciale, professionale, prima ancora che nelle affermazioni di principio e nelle formule, utili, necessarie, ma null’affatto sufficienti. Cultura del fare e non del dire. Dalla consapevolezza alla accountability, responsabilizzazione, ma anche attenzione, capacità di rispondere ‘presente’, quando si parla di diritto alla protezione dei dati personali. Questo primo passaggio è essenziale. Potrà parlarsi di vera consapevolezza e responsabilizzazione, se l’attenzione e l’approccio alla protezione è orientato alla cultura della proroga?
Fa riflettere leggere ovvero ascoltare commenti che, ancora oggi, sembrano parlare di privacy e di data protection come di un fardello sacrificabile, come se si stesse parlando di un qualcosa che è esterno ed estraneo a noi, dell’impatto di una meteora sconosciuta sul pianeta terra. La consapevolezza parte da qui. L’accountability anche.
Quali ombre, quali vuoti: semplicità nella complessità
I passi di avvicinamento alla data del 25 maggio sono stati scanditi da verbi al futuro – ‘vedrò’, ‘farò’, ‘provvederò’ -, da speranze di proroghe, appunto, da attese spasmodiche di vademecum in grado di garantire una risposta celere, immediata, economica, e dare linfa, ancora una volta, al ‘fai da te’ dell’emergenza. Emergenza, ma anche complessità, per chi non ha seguito l’evoluzione delle norme e dei lavori – del Garante privacy, del Gruppo di garanti europei (WP29, oggi Comitato per la protezione dei dati personali), degli operatori, della giurisprudenza – in tema privacy e data protection. Che l’emergenza sia interdipendente con la complessità sembra cosa ormai assodata. D’altro canto, la mole, quasi sempre smisurata, di adempimenti che vengono richiesti, nei settori più disparati, a professionisti, imprese, enti, non agevola la ricerca di semplificazione e di soluzioni concrete, specie se non pianificata con largo anticipo.
Dovremmo riscoprire tutti, dal legislatore agli operatori di ogni settore, l’importanza della semplicità, che è da sempre alleato assai prezioso per ogni pianificazione e acquisizione della consapevolezza, in ogni settore, senza la quale ogni discorso di accountability e compliance inevitabilmente cade ovvero è fortemente compromesso.
I ritardi della data protection compliace
Un pò ovunque una corsa di enti, aziende, professionisti, all’adeguamento alle nuove (per modo di dire) norme in tema di data protection (all’anagrafe G.D.P.R.). Un ritardo che è figlio di tante ragioni, e che fa eco al ritardo che a livello legislativo, spesso o quasi sempre, si verifica allorquando occorre armonizzare la legislazione interna a principi aventi portata comunitaria. Ritardo di processi legislativi, e prima ancora culturali, cui fanno seguito spesso ritardi di processi organizzativi e gestionali. Il comparto data protection ne è solo un esempio. Le recenti vicissitudini dello schema di decreto legislativo di adeguamento/armonizzazione della normativa nazionale rispetto alle prescrizioni del G.D.P.R. hanno rilevato un cambiamento di impostazione dello stesso legislatore nazionale, che prima aveva optato per l’abrogazione dell’intero Codice per la protezione dei dati personali (D.lgs. 196/2003), il cd. Codice privacy, salvo poi, nell’ultima bozza presentata per l’esame alle Camere, optare per la novellazione dello stesso, abrogando le disposizioni incompatibili, modificandone alcune e introducendone altre. E il percorso non è ancora concluso.
Uno stato dell’arte ancora non definito, dunque, dal punto di vista della citata armonizzazione normativa, ma che avrà un indiscusso nuovo protagonista, il G.D.P.R., direttamente applicabile e a cui ci si dovrà attenere, per garantire una adeguata data protection compliance. I presupposti di semplificazione normativa, chiarezza interpretativa e facilità applicativa, che hanno accompagnato il processo di armonizzazione ancora in fieri, sono un esempio emblematico di come serva oggi, come ieri, una maggiore e migliore capacità di confronto, sintesi e operatività tra tutti coloro che, a vario titolo, vivono quotidianamente l’importanza della privacy e dei dati personali.
Al di là di ogni riflessione sul percorso legislativo, restano i principi e le prescrizioni (da rispettare, nell’ottica della compliance), i processi (da ideare e controllare, privacy by design, privacy by default, Data breach, DPIA, esercizio dei diritti dell’interessato, ecc.) e i tavoli (da organizzare, organizzativo e tecnico), le policy interne (da attuare, privacy policy, cookie policy, ecc.), i documenti (da collazionare, Registro del trattamento, informative, formule di consensi, clausole, linee guida interne, ecc.), la formazione (da promuovere, pianificare e tracciare).
E, prima di tutto, la cultura. Un percorso di apprendimento costante, di verifica sul campo, di controllo, aggiornamento e modifica, che tanto sembra rivestire il carattere della gradualità, continuità e della normalizzazione (di processi, soluzioni, misure). Al di là di ogni discorso sulla compliance formale, oggi deve iniziare un nuovo percorso culturale e operativo verso la normalità nell’approccio e nelle metodologie, da parte di tutti, operatori e interessati. Diversamente, gli operatori rischiano di disperdere energie preziose, facendo corse affannose dell’ultim’ora, le aziende perdono opportunità di pianificare e sviluppare il proprio business ‘centrando’ realmente l’attenzione sulla persona, e gli interessati perdono un’occasione importante per esercitare diritti di portata significativa.
Quali azioni, quali processi
Anzitutto, una questione di mindset, di approccio, di cultura, di modus operandi, di consapevolezza. Una consapevolezza che è capacità di essere presenti, individuare figure, ruoli, poteri, responsabilità, da un lato, organizzare documenti, processi, misure, strumenti, dall’altro. Una mappa mentale, organizzativa e operativa che identifica e aiuta a pianificare e realizzare il lavoro da fare, per rispondere con convinzione al principio di accountability.
L’approccio ispirato al dubbio e all’aggiramento deve lasciare lo spazio alla concretezza e al committment, all’impegno di pianificare (privacy by design), attuare, dimostrare (accountability) la propria attività e il proprio ruolo nell’ottica della data protection compliance, al di là, lo si ripete, di ogni profilo formalistico. Un approccio che sia contagioso e uniforme in ogni risorsa privacy, processo, misura e attività.
In tale direzione, attenzione non soltanto ai principi e ai processi, ma anche alle linee guida dei Garanti europei (da oggi Comitato europeo per la protezione dei dai personali), le cui interpretazioni sono essenziali non solo perché mirano a fornire chiarimenti o far riflettere su determinati temi, ma anche e soprattutto perchè accompagnano quel percorso di crescita di consapevolezza e accountability che contribuisce a rendere lo sforzo culturale di cui parlava Thoreau un vero e proprio momento di scelta.
Un’ultima chiosa sul sistema sanzionatorio. Sarà importante consultare i lavori del Comitato per la protezione dei dati personali per avere informazioni chiare, sintetiche e trasparenti che non scoraggino e intimoriscano, facendo riferimento a massimali di sanzioni amministrative pecuniarie, ma al contrario favoriscano l’emergere di una maggiore condivisione di prassi, creino un senso di appartenenza a una tematica di rilevanza europea (e mondiale), e contribuiscano ad affermare una visione realistica di quello che potrà essere fatto, prima di tutto in chiave di prevenzione, e poi in ottica di eventuale risposta sanzionatoria, adeguata alla specificità del caso.
Si propone in lettura il Comunicato Stampa n. 62/17 e la Sentenza integrale della Corte di giustizia dell’Unione europea del 14 giugno 2017 pronunciata nella causa C-75/16.
La controversia era sorta in merito alla richiesta di restituzione (ingiunzione di pagamento) da parte di un istituto bancario di una certa somma di denaro nei confronti di due signori.
Il giudice di rinvio, come riportato nella sentenza, il Tribunale Ordinario di Verona, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se 1’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2013/11, nella parte in cui prevede che la medesima direttiva si applichi “fatta salva la direttiva 2008/52”, vada inteso nel senso che fa salva la possibilità per i singoli Stati membri di prevedere la mediazione obbligatoria per le sole ipotesi che non ricadono nell’ambito di applicazione della direttiva 2013/11, vale a dire le ipotesi di cui all’articolo 2, paragrafo 2 della direttiva 2013/11, le controversie contrattuali derivanti da contratti diversi da quelli di vendita o di servizi oltre quelle che non riguardino consumatori.
2) Se l’articolo 1 (…) della direttiva 2013/11, nella parte in cui assicura ai consumatori la possibilità di presentare reclamo nei confronti dei professionisti dinanzi ad appositi organismi di risoluzione alternativa delle controversie, vada interpretato nel senso che tale norma osta ad una norma nazionale che prevede il ricorso alla mediazione, in una delle controversie di cui all’articolo 2, paragrafo 1 della direttiva 2013/11, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale della parte qualificabile come consumatore, e, in ogni caso, ad una norma nazionale che preveda l’assistenza difensiva obbligatoria, ed i relativi costi, per il consumatore che partecipi alla mediazione relativa ad una delle predette controversie, nonché la possibilità di non partecipare alla mediazione se non in presenza di un giustificato motivo».
Su queste tre questioni pregiudiziali, la Corte ha fornito una interpretazione che così si sintetizza:
– «la direttiva 2013/11 dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede il ricorso a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie, purché un requisito siffatto non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario»;
– «la medesima direttiva dev’essere invece interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, la quale prevede che, nell’ambito di una mediazione siffatta, i consumatori debbano essere assistiti da un avvocato».
– e che gli stessi «possano ritirarsi da una procedura di mediazione solo se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione».
Per una lettura del Comunicato stampa n. 62/17 clicca qui.
Per una lettura della sentenza integrale della Corte di Giustizia del 14 giugno 2017, clicca qui.
Cassazione Civile, Sez. I, 10 maggio 2017 n. 11504
Assegno divorzile. Muta un parametro di riferimento: non è più rilevante il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma è valido il criterio del raggiungimento dell’ ’indipendenza economica’ del richiedente.
I Giudici della Prima Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11504, depositata lo scorso 10 maggio e definita da molti come rivoluzionaria, hanno stabilito, che, ai fini del riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno di divorzio all’ex coniuge richiedente è decisiva l’interpretazione del sintagma normativo “mezzi adeguati” e della disposizione “impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive” nonchè, in particolare e soprattutto, l’individuazione dell’indispensabile “parametro di riferimento”, cui rapportare l’ “adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” del richiedente l’assegno e, inoltre, la “possibilità-impossibilità” dello stesso di procurarseli.
Prima di tale pronuncia, il parametro di riferimento cui rapportare l’ “adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” del richiedente è stato costantemente individuato dalla Suprema Corte nel “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio” (Cass. S.U. n. 11490/90).
Orbene, il Collegio giudicante ha ritenuto tale orientamento non più attuale, finendo per sostenere, in definitiva, che se l’ex coniuge, richiedente l’assegno, possiede mezzi adeguati o è effettivamente in grado di procurarseli, il diritto all’assegno deve essergli negato tout court; mentre, se dimostra di non possederli e prova altresì di non poterseli procurare per ragioni oggettive, tale diritto deve essergli riconosciuto.
A differenza di quanto accade in seguito alla separazione personale – che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, i doveri di cui all’art. 143 c.c. -, con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale.
Il matrimonio è considerato un atto di libertà e di autoresponsabilità, nonchè il luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile.
Ad avviso della Suprema Corte, un’interpretazione delle norme sull’assegno divorzile che producano l’effetto di procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo coniugale, può tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare, in violazione di un diritto fondamentale dell’individuo (cfr. Cass. n. 6289/14) che è ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Cedu (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9).
Pertanto, si deve ritenere non configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento dell’ indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclusivamente – assistenziale dell’assegno divorzile.
Il Collegio ha ritenuto che un parametro di riferimento – cui rapportare il giudizio sull’ “adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio e sulla “possibilità-impossibilità “per ragioni oggettive” dello stesso di procurarseli – vada individuato nel raggiungimento dell'”indipendenza economica” del richiedente. Nell’ipotesi in cui venga accertato che quest’ultimo è “economicamente indipendente” o è effettivamente in grado di esserlo, non andrà riconosciuto il relativo diritto.
Per consultare il testo della sentenza, clicca sul link che segue: Cassazione 11504/2017
Professione legale e futuro – Capturing technological innovation in legal services 2017 – Avv. Alberto Mascia
La Law Society of England and Wales ha pubblicato uno studio di 116 pagine intitolato ‘Capturing technological innovation in legal services‘, nel quale vengono posti in correlazione il settore legale in Inghilterra e le nuove tecnologie – l’automazione avanzata, l’apprendimento automatico (machine learning) e l’intelligenza artificiale (AI) -, per arricchire e potenziare le capacità di avvocati e studi legali attraverso servizi, strategie e strumenti operativi inimmaginabili anche pochi anni fa. Il profondo cambiamento della professione di avvocato, in stretto parallelo agli stravolgimenti sempre più repentini guidati dalle nuove tecnologie, da diversi anni ha reso indifferibile la riflessione sul presente e futuro della professione legale, e in generale di ogni professione.
Nella ricerca pubblicata il cambiamento tecnologico è visto come una grande opportunità per gli avvocati di innovare la propria professione. Gli intervistati sono veri e propri pionieri e ‘early adopter‘ di nuovi modi di lavorare, i quali possono offrire a coloro che ancora guardano il fenomeno dai margini, intuizioni, esempi, pratiche e modelli da seguire. Per questi pionieri, l’innovazione è uno strumento messo al servizio della visione.
Al di là dell’ambito geografico nel quale la ricerca è stata effettuata, e dei suoi contenuti specifici, complessi da riportare nel dettaglio in un articolo, è opportuno e importante riflettere e soffermarsi sui principali e più significativi spunti operativi e strategici che la ricerca individua.
Alcuni numeri iniziali. Quasi 3/4 delle law firm intervistate concordano (47%) e concordano fortemente (24%) che l’innovazione è fondamentale per sfruttare le opportunità e differenziare il proprio studio, aprendosi all’imperativo del cambiamento. In diversi studi legali vi è un divario tra la necessità ‘riconosciuta’ di cambiare e il fare i primi passi verso l’innovazione, per tutta una serie di motivi, tra cui la mancanza di fiducia, di finanziamento, di consapevolezza sul ‘come’ iniziare, o una sconnessione con i senior che prendono le decisioni. Più della metà degli intervistati ha dichiarato che il proprio studio vuole aspettare cosa accadrà, lasciando che siano i pionieri e i secondo utilizzatori a indicare la strada da seguire.
L’attenzione della ricerca si è indirizzata soprattutto su alcuni studi legali pionieri prendendo in esame tre aree in cui la tecnologia influirà sul vantaggio competitivo:
(1) innovazione di prodotto (la tecnologia apre nuove aree di ‘lavoro’ nel settore legale e offre nuove modalità di fornire servizi ai clienti);
(2) processo di innovazione (la tecnologia cambia il modo in cui i servizi sono forniti e l’automazione aiuta ad aumentare la produttività degli avvocati);
(3) innovazione strategica (studi più trasparenti sui prezzi e flessibili con le risorse).
La ricerca rivela che le tecnologie ‘legali’ quali il Natural Language Processing (NLP), l’Intelligenza Artificiale (AI) e gli Assistenti Virtuali, per citarne alcune, offrono possibilità stimolanti per il modo in cui i processi legali possono evolvere o essere reinventati per il futuro, ma sono ancora sconosciute ovvero inesplorate dalla maggior parte dei professionisti del settore.
Nella pratica, l’innovazione tecnologica si presenta con specifiche soluzioni, alcune delle quali vengono di seguito riportate, traendole direttamente dalla ricerca.
Working smart. Gli studi che seguono società fondano l’innovazione su una stretta collaborazione con le stesse, per fornire loro un servizio adatto alle loro esigenze. Cambia il comportamento dei clienti e ciò influenza il modo in cui ogni studio fornisce loro i propri servizi e i differenti modi in cui i clienti si aspettano di interagire.
Innovation hubs. Centri, laboratori, ambienti in cui incubare e accelerare innovazione sono diretti a gestire problemi e questioni legali, attraverso collaborazione e co-innovazione, vera e propria componente chiave dei modelli di business e della innovazione tecnologica in molti studi legali che guardano in avanti.
Robotic Process Automation (RPA). Robot legali, automatizzazione di processi, lavori e operazioni ripetitivi, attività di backoffice gravose, che riduce i costi, assicura rapidità, rimuove il rischio di errore umano, genera maggiore conformità di risultato e libera lo staff per svolgere consulenza e tecnici, aggiungendo valore ai clienti.
Machine learning e Intelligenza Artificiale (AI). Gli algoritmi di machine learning sono (software di AI) progettati per rilevare modelli nei dati e applicarli a nuovi dati per automatizzare specifiche attività. In test di confronto tra i sistemi di apprendimento automatico e il lavoro umano, è stato notato un significativo risparmio di efficienza e tempo nell’utilizzo dei primi. L’apprendimento automatico funziona meglio in presenza di una grande quantità di dati significativi a disposizione. L’apprendimento automatico potrebbe non essere applicabile a molte attività svolte dagli avvocati e ci sono limiti su alcuni concetti legali (es. ragionevolezza, giustizia).
Predictive Analytics. Le analisi predittive estraggono informazioni da dataset esistenti per determinare previsioni su risultati e trend. Tali strumenti aiutano gli studi legali a gestire il rischio nel processo di decision-making.
Agile resourcing. Cambia il come, quando e dove gli avvocati del futuro scelgono di lavorare (freelance). Determinati sistemi ‘snelli’ (es. BLP’s Lawyers on Demand (LOD) consentono di flettere la dimensione e le capacità del team legale di uno studio legale, in caso di necessità, offrendo expertise senza . L’economia on-demand è il risultato dell’accoppiamento della forza lavoro flessibile con lo smartphone, tutto a portata di click.
Virtual assistants, livechat, chatbox. Società tecnologiche investono su processi di linguaggio naturale, sul deep learning, software di intelligenza artificiale, per creare strumenti innovativi per l’interazione con gli utenti. I chatbots combinano l’intelligenza artificiale con il riconoscimento vocale, con l’obiettivo di creare con gli utenti una comunicazione più simile a una ‘umana’ che a una con un software di AI. Tale modello riduce i costi per le aziende e aumenta l’efficienza per i clienti. Il chatbot presenta un’accessibilità amichevole e, attraverso l’apprendimento automatico, risponde alle domande più frequenti (FAQ). Gli assistenti virtuali possono inserire nuovi clienti e, per lo studio legale, aiutare a gestire l’allocazione del lavoro, il flusso di lavoro e lo stato di un progetto. Gli assistenti virtuali possono fornire un dashboard mostrando quanti casi legali ci sono, quali avvocati li stanno trattando, la durata media di particolari tipi di casi, i diversi risultati, consentendo allo studio di distribuire le risorse in modo ottimale per lo stesso studio e per i clienti.
Innovating for access to justice. Un numero crescente di strumenti tecnologici può facilitare l’accesso alla giustizia. Molti di questi sono in uso ovvero in fase di test da parte degli studi legali e delle agenzie di consulenza, ma con frequenza compaiono nuovi strumenti, sostenuti da eventi come hackathons legali, law school competitions, innovation hubs, e accesso al finanziamento, ma l’adozione degli strumenti migliori è sporadica e il loro uso è ben lungi dall’essere diffusa. Tra gli strumenti ci sono la diagnosi dei problemi, la consegna di informazioni personalizzate, il supporto di self-help, lo streaming in percorsi successivi alla risoluzione.
La ricerca propone poi una guida operativa per l’innovazione degli studi legali, individuando tutta una serie di passi iniziali. La tabella che segue, inserita nella ricerca in commento, suggerisce alcune domande che gli studi possono porsi per comprendere la loro attuale posizione e dove c’è spazio per cambiare (modi per generare idee, affrontare le barriere, migliorare i processi).
La capacità degli studi legali di collegare gli sviluppi attraverso l’innovazione tecnologica e la collaborazione saranno un fattore importante, conclude la ricerca, per il loro successo nei mercati futuri.
Per consultare il pdf contenente tutti gli approfondimenti innanzi menzionati digita sul link che segue: Capturing technological innovation in legal services 2017
Il quadro di riferimento
L’art. 4, comma 10-bis, del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 (in Gazzetta Ufficiale – serie generale – n. 19 del 24 gennaio 2015, coordinato con la legge di conversione 24 marzo 2015, n. 33) ha introdotto la possibilità di costituire le società destinate all’iscrizione nella sezione speciale delle start-up innovative di cui all’art. 25, comma 2, del D.L. n. 179/2012, in deroga a quanto previsto dagli articoli 2328 e ss. c.c.
Il citato art. 4, comma 10-bis prevede quanto segue: “Al solo fine di favorire l’avvio di attività imprenditoriale e con l’obiettivo di garantire una più uniforme applicazione delle disposizioni in materia di start-up innovative e di incubatori certificati, l’atto costitutivo e le successive modificazioni di start-up innovative sono redatti per atto pubblico ovvero per atto sottoscritto con le modalità previste all’articolo 24 del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. L’atto costitutivo e le successive modificazioni sono redatti secondo un modello uniforme adottato con decreto del Ministro dello sviluppo economico e sono trasmessi al competente ufficio del registro delle imprese di cui all’articolo 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, e successive modificazioni“.
Il MISE (Ministero Sviluppo Economico) ha pubblicato sia un Decreto direttoriale 1 luglio 2016, rubricato ‘Approvazione delle specifiche tecniche per la struttura di modello informatico e di statuto delle società a responsabilità limitata start-up innovative, a norma del DM 17 febbraio 2016‘, con i suoi allegati, sia una Circolare applicativa 3691/C del 1 luglio 2016, rubricata ‘Modalità di costituzione delle società a responsabilità limitata start-up innovative‘.
Come previsto dall’art. 8 del richiamato decreto direttoriale del 1 luglio 2016, per consentire alle softwarehouse di adeguare i propri programmi alle disposizioni del decreto stesso, queste acquistano efficacia a partire dal 20 luglio 2016. Tra le disposizioni vi è l’art. 2, dello stesso decreto direttoriale, che prevede quanto segue: “Gli atti costitutivi e gli statuti di cui all’articolo 1, sono redatti e sottoscritti con firma digitale, secondo quanto previsto dall’articolo 1 del Decreto del Ministro, avvalendosi della piattaforma startup.registroimprese.it“.
Nessuna necessità, dunque, di ricorrere alla figura del notaio.
Le società di cui all’art. 1 del decreto direttoriale sono quelle indicate nell’art. 1, comma 1, del Decreto 17 febbraio 2016, rubricato “Modalita’ di redazione degli atti costitutivi di societa’ a responsabilita’ limitata start-up innovative“, il quale fa riferimento “ai contratti di societa’ a responsabilita’ limitata, ivi regolati, aventi per oggetto esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico e per i quali viene richiesta l’iscrizione nella sezione speciale delle start-up di cui all’art. 25, comma 8, del decreto legge 19 ottobre 2012, n. 179“, i quali sono redatti in forma elettronica e firmati digitalmente a norma dell’art. 24 del C.A.D., da ciascuno dei sottoscrittori, nel caso di societa’ pluripersonale, o dall’unico sottoscrittore nel caso di unipersonale.
Va rilevato che il procedimento introdotto dall’art. 4, comma 10-bis è percorribile in via facoltativa e alternativa rispetto a quello ordinario di cui al codice civile. Pertanto, a solo scopo tutioristico, come ricorda la citata Circolare, gli uffici competenti potranno continuare a iscrivere in sezione ordinaria e speciale start-up costituite nella forma di società a responsabilità limitata a norma dell’art. 2463 del codice civile, con atto pubblico.
Per una più approfondire lettura, anche in merito alla procedura da seguire, si rimanda alle normative evidenziate nel testo e al link suindicato e qui di seguito riportato nuovamente: http://startup.registroimprese.it/